Recensione- Le vite di Edie Pritchard

Larry Watson, Mattioli e Nicola Manuppelli ci hanno fatto un gran bel regalo. Grazie a tutti e tre.

Non citerò alcun passaggio perché non voglio sottrarre nemmeno una briciola del piacere che si prova nel leggere Le vite di Edie Pritchard, e temo che anche una sola frase potrebbe rivelare qualcosa che invece è giusto incontrare durante la lettura.

Nella vita cambiamo. A volte cerchiamo di adattarci alla realtà che ci circonda e a volte proviamo a forzarla, questa realtà, perché sia lei ad adattarsi al nostro sentire.
Con gli anni variano anche le priorità e il modo in cui le viviamo: ci spingono a scelte che in fondo sappiamo non rappresentarci (ma le facciamo), o ci inducono a una ribellione per affermare il nostro essere. Succede a Edie, succede a noi.

Due matrimoni, due percorsi: uno in qualche modo segnato da amore e affetto, ma anche da una sana consapevolezza – e qualche fragilità; l’altro da doveri (che non sono solo suoi, ma d’altronde chi dovrebbe farsene carico?) e una minore “leggerezza”. E poi una terza via, perché la formazione degli esseri umani non termina mai.

Ho amato questo romanzo? No, l’ho adorato.
Ho adorato la capacità di Larry Watson di cogliere il retro pensiero (quasi mai espresso) delle donne, quel modo di ragionare che per noi (le donne) è così immediatamente chiaro, normale e corretto, e che spesso rende difficile agli uomini capirci fino in fondo.

Qui riconosciamo perfettamente quello che sta alla base delle nostre scelte e del nostro vivere. Anche quando non è spiegato.

Grande comprensione del femminile da parte di Watson, e altrettanto da parte di Nicola Manuppelli che l’ha fatta passare magistralmente nella traduzione.

Recensioni – La vita delle rocce

E sì, si tratta di racconti. Che ogni buon lettore dovrebbe desiderare. È un libro che parla di persone, e le persone di cui parla siamo anche noi, non importa quanto lontane da quelle narrate siano le nostre esperienze. È un libro che parla di gioie e di dolori, e di dolori nati dalle gioie. Non c’è nessun pugno nello stomaco, nessuna vicenda che di colpo ci getta nell’orrore e che così facendo ci porta a prendere una facile posizione. Qui non si prendono posizioni. Si condividono stati d’animo e si condivide un dolore che conosciamo ma che non siamo mai stati in grado di vestire di delicatezza, e del quale non vediamo le luci e le ombre. C’è il dolore fisico e c’è il dolore di una perdita. Ma il dolore vero è quello del ricordo: un padre, una gita, la consapevolezza della solitudine, la sensazione di qualcosa di ancestrale di cui non capiamo subito la grandezza. E qualche volta il ricordo può mischiarsi all’entusiasmo.

Parlando di un libro non ha senso dire che è bello, per tanti motivi che chiunque legga già conosce. Eppure questo è un libro bello. Per la scrittura di Bass che ammanta di delicatezza la verità pur non nascondendola, per la sensibilità che dà dignità alle esperienze umane senza volere renderle mitiche o mistiche. Perché avvicina al cuore degli uomini parlando di rocce o di alci. E perché è un libro che nonostante mostri il dolore è luminoso.

P.S.: Traduzione meravigliosa di Silvia Lumaca

Recensione – Miss Margaret Ridpath e lo smantellamento dell’universo

È venuto il momento di parlare di questo libro. Perché l’ho terminato da un po’, e perché sto leggendo altri libri molto belli ma quando alzo lo sguardo dalla pagina vedo questa signora che mi osserva. E resto lì, pure io a guardare lei, e a ricordare il suo sentire. Quindi è ora di pagarle il tributo.

In due parole: è la storia di Margaret Ridpath, insostituibile contabile e campionessa di bridge di Paradise Falls (questo lo scrivo per chi conosce l’autore). Questi i due aspetti che sicuramente la definiscono agli occhi del mondo che la circonda. Ma le stesse cose definiscono anche la distanza abissale con ciò che Margaret è realmente: una donna che sin dall’infanzia, per carattere o esperienza, ha imparato a dividere l’umanità in due categorie, le persone di ferro (che il mondo lo gestiscono o perlomeno ne capiscono le regole) e le persone di carta stagnola. E Margaret si riconosce in una stagnola che deve convivere con il ferro senza rimanerne schiacciata.

Sembra avere una visione molto lineare di come l’universo dovrebbe funzionare: la realtà è la realtà e la verità è la verità. e tutte e due sono (devono essere) incontrovertibili. Non capisce cosa ci sia di complicato in questo. Non capisce, o non riesce ad accettare, che la realtà ha una componente soggettiva e che la verità…beh, la verità non sempre è necessaria.

Per tutta la vita Margaret cerca di adattare l’universo ad uno schema, perché in questo modo lei saprebbe esattamente dove si trova. I numeri sono ciò che più si avvicina ad una difesa. I numeri non mentono, la realtà e la verità delle operazioni matematiche sono inconfutabili. La sua è una guerra per tenere in piedi una struttura traballante; fino a che non apparirà un ragazzotto psicopatico che, insieme al già difficile secondo mandato di Nixon, cercherà di smantellarla, e lei deciderà di fermare questa “oscenità”.

Ma questa ragazza, donna, anziana, vive periodi belli, molto belli, e a volte molto lunghi, e trova sfoghi che teoricamente potrebbero essere discutibili ma che strappano sorrisi. E scopre una terza categoria di persone, quelle di segatura, sulle quali anche lei può esercitare un potere. E lo fa. Oh, se lo fa! Oltretutto perfettamente cosciente del significato. Una valvola di sfogo per una pentola a pressione. Sbaglia? Sì. La capiamo? Direi di sì. Faremmo come lei? Mah…le parole sono una cosa e i fatti un’altra, e io direi che nella stragrande maggioranza, sì, faremmo come lei.

Margaret, così magnifica, forte e fragile; la penna di Don Robertson, così magnifica e forte (fragile direi proprio di no).

Lo humour di Robertson, le ripetizioni di nomi e cognomi (tratto tutto suo), la capacità di schiudere con una breve frase tutta la complessità e le sfaccettature di un’anima (e forse anche della nostra) fanno di “Miss Margaret Ridpath e lo smantellamento dell’universo” un romanzo imperdibile e che racconta molto più di quello che può sembrare.

Robertson ha cose da dire e le dice. Ma non le urla, come altri. Uguale a nessuno, lui racconta una storia, e prima di tutto ci si deve ritrovare nel piacere (immenso) di leggere un romanzo. Tu credi di fare questo e godi di questo. I messaggi possono emergere poco a poco nella coscienza del lettore. Forse anche ben dopo aver terminato la lettura. Chi non lo avesse mai letto dovrebbe farlo.

Oppure perdere una letteratura meravigliosa.

Le recensioni della libraia – L’ultima cosa bella sulla faccia della terra

Harmony è una cittadina come migliaia di altre, anonima, senza nulla di particolare da offrire e nella quale sembra non accadere niente. Fino alla domenica in cui, durante una celebrazione in chiesa, Iggy decide di darsi fuoco (esattamente come i bonzi ai quali si ispira).

Qualcosa tuttavia va storto e nella chiesa scoppia un incendio nel quale perdono la vita venticinque persone. Si salveranno solo in tre: una signora di mezza età, un bambino di quattro anni e lo stesso Iggy, che ora è in carcere, condannato alla pena capitale.

Questa è la premessa.

E poi scoppia la scrittura di Bible, con i continui salti temporali e con il diario di Iggy, in attesa dell’iniezione.

Le parole di Iggy disegnano un mondo in qualche modo malato di un male a cui nessuno sembra prestare attenzione. Ma lui sì, e con lui gli amici Cleo e Paul. È una consapevolezza che li atterrisce e che li porta a cercare realtà alternative che però non diventano mai la soluzione. Le parole di Iggy hanno il tono di chi ha capito qualcosa che ancora sfugge ai più, e le sue considerazioni, che non sono mai sentimentali, sfiorano (direi che toccano proprio) la poesia.

Aggiungerei che la sua farneticante narrazione delle tante vite precedenti non può non ricordare (con le opportune differenze e finalità) il Darrel Standing di londoniana memoria.

La scrittura di Bible merita assolutamente la lettura del romanzo. L’autore è magistrale nel rendere lirico l’anonimato di un banale quotidiano e del male che vi si nasconde, e nel raccontare le considerazioni e i pensieri dei suoi protagonisti che solo apparentemente parlano di laconica normalità, ma in realtà con le parole scavano e scavano e scavano.

Recensioni della libraia – Gli unici indiani buoni

“Per proteggere il tuo cucciolo devi menare colpi con gli zoccoli. Tua madre lo ha fatto per te, lassù sui monti del tuo primo inverno. Il suo zoccolo nero che scattava in avanti tra quelle bocche ringhianti era così veloce, così puro – solo avanti e indietro -, lasciando dietro di sé un arco perfetto di goccioline rosse. Ma gli zoccoli non sempre bastano. Puoi mordere e lacerare con i denti, se le cose si mettono male. E puoi correre più piano di quanto sei realmente capace di fare. Se niente di tutto ciò funziona, se i proiettili sono troppo fitti, le orecchie troppo sature di rumore, il naso troppo pieno di sangue, e se loro sono già arrivati al tuo piccolo, allora c’è un’altra cosa che puoi fare.

Ti nascondi nel branco. Aspetti. E non dimentichi.”

Punto primo: se cercate storie reali evitatelo.

Punto secondo: se cercate storie reali leggetelo.

Esattamente così.

Stephen Graham Jones scrive horror, e il libro ha vinto il Shirley Jackson Award e il Bram Stoker Award, quindi già questa premessa dovrebbe disincentivare chi non si trova a proprio agio con il genere.

Eppure.

Eppure questo romanzo che gronda sangue pagina dopo pagina in un crescendo di situazioni inenarrabili, e in cui una persona apparentemente normale viene resa schiava dalla follia…trova la sua “cuccia” perfetta tra la narrativa dei nativi americani.

È esattamente lì che deve stare, in mezzo ad altri generi di narrazione molto “indiana”. Perché, nonostante l’autore, Piedi Neri, non abbia frequentato la sua tribù, è proprio lo spirito nativo americano contemporaneo quello che il romanzo incarna.

La vergogna.

Il distacco mai completato da una cultura, la volontà di sentirsi “civilizzati”, e la vergogna per esserci quasi riusciti, il sangue che ha trattenuto qualcosa delle verità ascoltate dai vecchi.

Tutto questo rimasto sopito in fondo all’essere, ma sempre al lavoro, come un vulcano che non riusciamo a sentire ma che continua a brontolare.

Quello che leggiamo non è la violenza umana, e neanche la fantasia. È lo strabordare di ricordi ancestrali che non possono più essere trattenuti e che sfondano gli argini.

Stephen Graham Jones, “Gli unici indiani buoni”. Fazi ed, collana Darkside, trad. Giuseppe Marano, € 18,50.

Recensioni della libraia – Zebio Còtal

“…pareva che tutto quel sole che batteva contro i suoi muri non riuscisse a entrare nelle stanze”.

Così si presenta la casa di Zebio Còtal, ed è già chiaro che ogni speranza di serenità si fermerà fuori da quelle mura. E così è il tratto del libro, un continuo gioco di chiaroscuri e di contrasti tra il mondo di Zebio e il mondo intorno a lui; tra i membri della famiglia; tra Zebio e sé stesso.

In mezzo a una campagna emiliana che inonda le pagine di luce, di campi verdi e dorati, di tende mosse dalla brezza, di cielo limpido e di trattorie ombreggiate dove è bello riposare, la terra di Zebio è un’isola di disperazione.

È una terra povera forse, ma soprattutto la terra di un uomo che non vuole più spaccarsi la schiena e che alle fatiche preferisce mezzo litro di vino. Se ascoltasse i propri pensieri, che nei momenti di lucidità si presentano come epifanie, forse riuscirebbe a raddrizzare un poco la propria esistenza, ma davanti a ragionamenti che lo mettono in difficoltà con sé stesso, come davanti ad uno specchio, risolve sempre con una bevuta. Zebio è disgraziato nel lavoro e nel proprio essere, così cattivo nei momenti di autocommiserazione da diventare disgustoso. È rabbioso per la terra che non gli dà quello che dovrebbe e per i sei figli che deve mantenere senza averne i mezzi; è rabbioso per le avversità che lo lasciano a margine di una comunità che pur vivendo di stenti come lui sembra però cavarsela meglio.

Dal punto di vista umano il dramma è che Zebio sia convinto di essere in guerra perenne con tutti, mentre in verità nessuno ha più alcuna considerazione per quest’uomo né, in fondo, un pensiero da dedicargli.

Al fianco di questo essere violento c’è la moglie Placida, una donna dimessa e così debilitata dalla fatica e dal marito da non avere più forze per opporglisi. L’unica cosa che può fare quando è libera dal lavoro nei campi è amare i propri figli e affidarsi a Dio, e anche questa fiducia sembra più che altro una scommessa nella quale l’unico giocatore è l’essere umano.

Il contrasto Zebio/Placida è anche nei figli, simili a loro ma anche l’uno il contraltare dell’altro: Pellegrino e Glizia ricordano fisicamente il padre, ma se il primo probabilmente ne seguirà le orme, Glizia è la lottatrice che cerca di uscire da un’esistenza disperante. Lo stesso vale per Bianco e Zuello, ritratti di Placida, da cui Bianco erediterà anche il carattere sottomesso, mentre Zuello si muoverà verso quel po’ di serenità che gli è dovuta.

Glizia e Zuello cercano una piccola luce a cui aspirare: quando il punto di partenza è l’inferno, per essere sereni è sufficiente uscire da lì, non è necessario trovare il paradiso.

Di fronte a Zebio si prova insofferenza; la sua cattiveria è chiara a tutti, senza se e senza ma. Eppure, nonostante lo disprezziamo per la gratuità della sua violenza, non possiamo non capirne la rabbia, che gratuita non è, anche se viene sfogata con comportamenti subumani. È la disperazione della piccola gente, quella dei poveri che se la prendono con i poveri, in una comunità in cui tutti si conoscono e credono di avere il diritto di giudicare gli altri, forse per non giudicare sé stessi.

Zebio non può piacere, e tuttavia ci sono momenti nei quali sembra quasi infantile, per esempio quando gioisce davanti alla bellezza dei grassi campi degli altri; e se subito dopo, guardando i suoi, precipita nel buio della propria esistenza e viene colto dal livore, è come se in fondo al suo essere fosse rimasto un briciolo di “ingenuità” che gli permette, semplicemente, di godere di quella pienezza, dimenticando per un momento che quella fortuna non è la sua.

Così quando tutto precipita su quest’uomo, e il mondo lo chiude in una bolla di indifferenza e di dimenticanza, quando questa volta anche la natura si adegua, allora noi continuiamo a biasimarlo, non possiamo fare altrimenti, ma forse non più dal piedistallo dei “giusti”.

È un libro per il quale ringraziare l’editore che lo ha ripubblicato. Ed è un libro da leggere per capire, tra tanta pubblicità ai nuovi titoli, osannati sempre come capolavori, quale sia la differenza tra narrativa e letteratura.

Guido Cavani, “Zebio Còtal”, ed. Readerforblind, € 16,00

Recensioni della libraia – C’era una volta in America (The Hoods)

Un passato da criminale nell’America degli anni ’30. Gangster e testimone della malavita newyorkese. Harry Grey era questo. Poi scrittore.

Maxie, Noodles, Patsy, Cockeye, Jake, Pipy…legati dall’essere cresciuti nella Lower East Side; legati dall’essere disprezzati dalle persone “perbene”, che hanno basato la propria rispettabilità sul denaro, senza farsi troppi problemi sui mezzi per ottenerlo; legati dalla consapevolezza di essere disonesti nella vita, ma comunque più onesti di tutte quelli che si trovano dalla parte giusta della società: dei politici che comprano voti, dei sindacalisti che si lasciano corrompere quando dovrebbero battersi per i lavoratori, delle forze dell’ordine che per qualche soldo sono disposte a girarsi dall’altra parte.

“Be’ dov’è il tuo amore sviscerato per gli oppressi? Ti hanno comprato. Hai venduto le tue opinioni liberali. Per una charlotte russa.”

È così che tutti si lasciano comprare. Con una charlotte russa. Può trattarsi di soldi, di potere, o dei voti degli elettori. Sempre di charlotte russa si tratta, la stessa con cui i protagonisti, da ragazzini, compravano le giovani prostitute.

È la storia di un’amicizia.

È la storia della nascita delle bande di gangster nell’America del proibizionismo, delle sale da gioco, degli speakeasy.

È la storia di una spirale di violenza e di cattiveria che sembra trascendere ogni limite.

È anche una storia di rabbia che non si può e non si vuole mettere a tacere (contro chi mette le famiglie su una strada; contro le religioni che chiedono solo di pregare e accettare passivamente, promettendo un premio futuro che questi ragazzini non intendono aspettare; contro chi indossa una maschera che nasconde il delinquente, e per questo può permettersi di fare ciò che vuole e sputare addosso agli altri).

È una storia di fame: per tutto il libro i protagonisti mangiano, mangiano appena possono. Bambini mangiavano quello che potevano permettersi con cinque o dieci centesimi; adulti, ormai ricchi, ricchissimi , sembra che non riescano a staccarsi dal ricordo della fame patita.

È una storia di ebrei criminali.

È una storia di americani falsi.

Il disprezzo rasenta l’odio proprio nei confronti degli americani, i padroni di casa, quelli che si riempiono la bocca con il loro essere produttivi, con il loro avercela fatta, in una parola “con il loro essere Americani”:

“Fottuto bastardo.” Maxie gli sputò in faccia.” Prova a sventolarla, la bandiera![…]. Hai una casa da gioco truccata. Ti agguanti tutti i profitti. Paghi male quelli che lavorano per te. Probabilmente vai in giro a mettere paura alla gente con quella vigliacca organizzazione del Klan. E saresti un buon americano? Rubi perfino il diritto di voto, con i registri falsificati. Ti consideri migliore di Frank! […]”.

Ma in fondo la fotografia del Paese è nella considerazione di Noodles:

“Be'” pensavo “hanno ragione tutti e due. Questo rognoso è l’America, con il suo Ku Klux Klan e tutta la schifosa mangiatoia truccata. In quale parte del mondo se non in America, lo si trova un personaggio come questo politicante ladro? Dove, se non in America, potrebbe esistere una figura come Frank? E noialtri della gang, tutti veri e tipici americani” risi tra me. “Dio benedica l’America”.

Un Paese di ipocriti in vendita per una charlotte russa.

Il fatto che il linguaggio sia quello a cui ci hanno abituato i film di genere e che sia sottolineata la tracotanza di questi personaggi, a mio avviso non fa che aumentare il piacere della lettura, perché alcune frasi possono sembrare scontate, ma sinceramente è quello che noi, oggi più corretti, timorosi di quello che diciamo e di come lo diciamo, ci aspettiamo e assolutamente vogliamo dai gangster degli anni ’30.

Harry Grey, “C’era una volta in America” (in realtà “The Hoods”, ma si è preferito mantenere il titolo del film per permettere di identificare la storia in modo più immediato), Mattioli 1885, trad. Benedetto Montefiori, € 20,00

Recensioni della libraia – 1849 Lilliana e altri racconti

Questa è una raccolta nella quale la semplicità delle storie non ha nulla di scontato. Sienkiewicz ci presenta due mondi: quello polacco e quello americano, quest’ultimo visto da una prospettiva “privilegiata” di europeo che accetta le nuove realtà e un’ impostazione di vita diversa da quella a cui è abituato, ma lo fa con una cultura e un bagaglio di tradizioni che non appartengono all’America e che lo aiutano a vedere le cose nello stesso tempo con partecipazione e con un certo distacco. I temi dei racconti sono tanti in verità:

– la durezza della vita in Polonia, paese poverissimo nel quale le condizioni di vita dei più umili sono estreme, e l’arroganza di chi governa è feroce:

“Stava, d’inverno, seduto dietro la stufa e piagnucolava sommessamente per il freddo, talvolta anche per la fame, quando la mamma non aveva nulla da mettere sulla stufa né nella pentola”

“Non c’era dubbio alcuno che a un ragazzo polacco in una scuola tedesca accadeva di udire molte cose che ferivano i suoi sentimenti più profondi, e che erano la negazione diretta, oppure il disprezzo o la beffa, del paese, della lingua, delle tradizioni patrie, di tutto ciò insomma che in casa gli avevano insegnato a rispettare e ad amare”

– la nostalgia di casa che improvvisamente scende sull’emigrato ormai convinto di essersi abituato ad un mondo differente:

“Ecco: quarant’anni erano passati dacché non aveva più visto il suo paese, e Dio sa da quanto tempo non udiva il linguaggio natio; e ora quella lingua era venuta fino a lui, aveva varcato l’oceano e aveva trovato lui, solitario, nell’altro emisfero, quella lingua tanto amata, tanto cara, tanto bella”

– l’amore: quello per la donna angelicata che vediamo nel racconto Lilliana, la ragazza (meglio “la fanciulla”) che, durante un complicatissimo viaggio dal Mississippi alla California, ruba il cuore al comandante della carovana, uomo tutto d’un pezzo il quale improvvisamente si trova a dover gestire sentimenti nuovi e a ragionare su cosa sarebbe l’uomo se non avesse qualcuno con cui condividere la propria esistenza. Le parole di Rodolfo su questo suo amore rimandano immediatamente alla Beatrice dantesca:

“…quella giovinetta possedeva evidentemente un cuore molto dolce e tenero”, o ancora “…nessuno mi biasimò, perché tutta quella gente nutriva affetto per Lilliana”, e addirittura ” … gli occhi azzurri e quasi angelici”…)

“Tanto gentile e onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta […] mostrasi sì piacente a chi la mira che dà per li occhi una dolcezza al core, che ‘ntender no la può chi no la prova”.

-il disprezzo per i tedeschi che troviamo un po’ ovunque, in Polonia e in America, e che ha nel racconto intitolato Sachem un esempio molto forte;

-l’America degli emigrati e dei pionieri, e ancora tanto altro sulla natura umana…egoismi, incoscienza, mancanza di consapevolezza…

E infine ci sono alcune considerazioni sulla scrittura di H.S. che sono quelle che mi fanno dire come non sia una lettura scontata per l’apparente semplicità delle storie. Anzi, l’approccio può essere complicato dal fatto che si è scelto, saggiamente a mio avviso, di non svecchiare il linguaggio, proprio della seconda metà del 1800.

A chi è abituato al mordi e fuggi letterario questi racconti potranno risultare perlomeno anomali. In realtà sono un incredibile specchio di quei tempi, di come si vivevano i propri sentimenti, di come si viveva il razzismo (anche il proprio); un linguaggio moderno che raccontasse i medesimi avvenimenti li ridurrebbe senza dubbio a qualcosa di più banale; invece ci troviamo davanti ad un mondo diverso (a volte) dal nostro, e ad un diverso modo di pensarlo, e da qui tutto il valore di testimonianza, fosse anche romanzata.

Termino con una raccomandazione vera per alcuni dei racconti presenti: attenzione perché “lontano dal linguaggio contemporaneo” non significa sempre “lontano dal sentire”.

Henryk Sienkiewicz, 1849. Lilliana e altri racconti, Readerforblind, € 18,00

Recensione – Non si fruga nella polvere

La storia sembrerebbe semplice: il sedicenne Chick, bianco, con l’aiuto dell’amico di colore Aleck Sander, e in seguito di un’anziana signora e dello zio Gavin, è intenzionato a provare l’innocenza di Lucas Beauchamp, un vecchio nero accusato di avere ucciso un bianco sparandogli alle spalle, e per questo probabilmente destinato al linciaggio, o al fuoco, o a tutte e due le cose. In realtà Non si fruga nella polvere è una dichiarazione politica.

Come sempre in Faulkner, il romanzo è in gran parte affidato al flusso di coscienza, qui davvero molto incalzante, a tratti quasi incontrollabile; i pensieri di Chick si accavallano gli uni sugli altri e spingono per prendersi la scena: le azioni da compiere, l’atteggiamento dei suoi concittadini, un sentimento di insofferenza e rispetto nei confronti del vecchio Lucas (colpevole di essersi mostrato superiore a lui in un episodio del passato, e per questo odiato e riverito nello stesso tempo), la famiglia, la madre.

L’autore affida il proprio pensiero politico alla voce dello zio Gavin, non a caso avvocato (a cui Lucas affida la propria difesa). Gavin parla al nipote di bianchi e di neri, di Nord e di Sud: non discorsi moralistici, ma il punto di vista carico di rancore per ciò che la Guerra Civile ha lasciato al Sud:

“Dico solo che l’ingiustizia è nostra, del Sud. Dobbiamo espiarla e abolirla noi, da soli e senza aiuti e nemmeno (tante grazie) consigli.”

Quel verbo, “espiare” ha un significato importante; la consapevolezza degli errori e degli orrori è ben presente da tempo in tutto il Sud. Ma per arrivare ad una convivenza definitivamente paritaria i bianchi sanno di dover espiare le proprie colpe. Non è un processo immediato – non può esserlo – ma è l’unico possibile per arrivare all’abolizione sincera delle ingiustizie.

L’errore del Nord, per Gavin/Faulkner, è stato quello di aver imposto dalla sera alla mattina le proprie leggi ad una popolazione totalmente “diversa” per cultura e principi, provocando in questo modo un rifiuto a priori. Il Mississippi conosce le ingiustizie delle quali sono state e sono vittime i neri: questo non è in discussione. Ciò che è in discussione è la metodologia nordista: la volontà di umiliare e quella di sostituire i principi fondanti di una comunità con altri che non sono propri di quel territorio. Il Nord ha usato spesso il rapporto bianchi/neri come “mezzo” con il quale cambiare un ordine economico, senza essere veramente dissimile da quella popolazione vinta:

“… il Sud compatto che volente o nolente ha raccolto reclute dalle vostre zone arretrate, non solo dal vostro entroterra ma dalle belle città del vostro orgoglio culturale le vostre Chicago e Detroit e Los Angeles e ovunque vivano persone ignoranti che temono il colore di qualsiasi pelle o la forma di qualsiasi naso a parte i propri e che coglieranno questa opportunità per sfogare su Sambo l’intera somma del loro orrore e disprezzo e paura ancestrali di indiani cinesi messicani caraibici ed ebrei…”

Il Mississippi, il Sud in generale, era un’entità che credeva di riconoscersi in altro: nell’onore, nel lavoro, nella famiglia, nel territorio. Le nuove leggi cancellarono tutto questo per sostituirlo con priorità legate all’industrializzazione e al denaro (le descrizioni del paesaggio e dei suoi orizzonti, contrapposte al caos cittadino carico di automobili inutili ne sono un esempio). Era il progresso, ma indubbiamente un progresso che non piaceva a una generazione che non aveva avuto il tempo per abituarvisi.

L’alternarsi di pensieri positivi e negativi nei confronti dei neri è continuo: l’atteggiamento di Chick innanzitutto, ma anche Gavin che all’inizio non sembra del tutto convinto dell’innocenza di Lucas, e tuttavia non esita a cambiare idea appena ne ha l’occasione, e la popolazione stessa, che è pronta al linciaggio ma anche a perdere e prendere tempo, per sembrare infine quasi sollevata (o perlomeno non disturbata) quando scopre di essersi sbagliata. E c’è – c’è sempre in Faulkner – una profondissima conoscenza dell’uomo, e una capacità di esprimere questa conoscenza con un linguaggio che resta inciso nell’animo di chi legge:

” …perché quello che fa rigirare nel letto un uomo insonne non è aver offeso il prossimo quanto aver avuto torto; la semplice offesa (se non riesce a giustificarla con quella che chiama logica) può cancellarla distruggendo la vittima e i testimoni ma l’errore è suo e questa è una di quelle rogne da prendere sempre per il verso giusto. Così Lucas avrà il suo tabacco. Naturalmente non lo vorrà e farà resistenza. Ma lo avrà e così assisteremo qui nella contea di Yoknapatawpha all’antico rapporto orientale tra il salvatore e il salvato capovolto: Lucas Beauchamp una volta era lo schiavo di qualunque uomo bianco a cui capitasse a tiro, ora il tiranno della coscienza bianca dell’intera contea.”

A fare da sfondo la natura, quella del Sud, quella della contea di Yoknapatawpha, scenario di tante opere faulkneriane (e in realtà la contea di Lafayette). Sottolineare che si tratta della natura del Sud è importante, perché per Faulkner si tratta di una specie di paradiso terrestre violato e rovinato dalle politiche del Nord, ma che allo sguardo resta meraviglioso, comprensivo della natura degli uomini che lo abitano e allo stesso tempo entità a sé stante.

Non si fruga nella polvere, perché a farlo si può scoprire di essere stati sempre dalla parte sbagliata, ci si può accorgere di essere stati prevenuti, si può scoprire che il vicino è molto peggiore di qualsiasi cosa immaginabile. E in definitiva ci si ritrova davanti a sé stessi, obbligati a quel punto a fare ammenda, compito che l’essere umano sembra aver trovato sempre molto difficile.

(Come sempre con questo autore sarà una lettura divisiva, ma non si può negare che le pieghe della coscienza umana siano indiscutibilmente come lui le descrive. Piaccia a no, impone di fare i conti anche con noi stessi, le nostre idee e perfino, cosa non scontata e spesso dolorosa, con alcuni buonismi che ci piace pensare ci definiscano).

William Faulkner, “Non si fruga nella polvere”, trad. Roberto Serrai, Adelphi, € 19,00

Recensioni della libraia La famiglia Shaw

“Cosa poteva mai insegnare lei a Emma o al nascituro sulla vita, quando aveva sbagliato a capire così tante cose? Tutto quello che sapeva adesso era che doveva trovare il modo di andare avanti nonostante i suoi errori, proprio come Ray era andato avanti nonostante i propri. Forse un giorno Bette avrebbe potuto insegnare questo ai figli: che nella vita, per poter andare avanti, devi sempre trovare il modo di perdonare il cuore, anche se è difficile, per gli sbagli che ti ha fatto fare; per la cattiveria delle cose che hai pensato, detto, fatto e provato.”

Sette figli, un padre presente, una madre molto assente. L’incapacità di capire di chi è troppo giovane; il desiderio di portare la propria vita sul binario giusto e le conseguenti delusioni; la volontà di non ricordare, o di ricordare troppo, e l’umana supponenza di conoscere tutto di chi ci sta vicino; lo straniamento quando inevitabilmente si scopre che non si può.

Perché in fondo noi non conosciamo nemmeno noi stessi. Perché quelle che immaginiamo siano le nostre giuste reazioni alla vita potrebbero riservare sorprese. Quindi come è possibile credere di conoscere davvero a fondo un’altra persona? Anche se viviamo insieme a lei da anni, anche se viviamo insieme a lei da sempre, anche se quella persona l’abbiamo vista nascere. Potremo conoscere il qui e ora esteriore, ma non avremo mai la giusta percezione sulla genesi dei pensieri né sulla loro deriva.

Ma nonostante questa impossibilità (perché non si tratta di incapacità, ma di essere umani troppo umani), questo libro ci permette di respirare aria di famiglia; è un romanzo che porta un ricordo anche a chi ha vissuto una vita diversa da quella degli Shaw. Scava nei sentimenti, dei personaggi e del lettore, porta alla luce sensazioni che sono state nostre o che avrebbero potuto esserlo.

“La famiglia Shaw”, Rebecca Kauffman, trad. Alice Casarini, Sur, € 17,50

Recensione della libraia Qualcosa di nuovo sotto il sole

NO SPOILER, se volete conoscere la trama qui non la trovate. Qui trovate il motivo per cui leggerlo.

California, un momento imprecisato di un futuro vicino che potrebbe essere già presente.

Una California sfigurata da decine di incendi, come siamo ormai abituati a vederla da anni, e proprio perché spaventosamente identica a quella che conosciamo produce una sensazione inquietante di mondo apocalittico e reale.

Ambientalisti che si nutrono dei propri “lutti ambientali” ma che si limitano a quello, chiusi nella loro comunità, rifiutando di fatto di fare la propria parte in modo attivo (“Al ritmo con cui accadono questi disastri, dobbiamo sempre passare oltre, forse prima di quanto vorremmo. È un fardello pesante essere lo spartiacque della sofferenza di un pianeta intero, i testimoni dell’ultimo saluto della natura“); leoni da tastiera, scatole vuote da riempire con cretinate televisive e cinematografiche, che colmi di immagini e pensieri inseriti da altri e accolti acriticamente sono ormai diventati complottisti sul nulla…

In questo ambiente e tra queste persone si muovono Patrick, Alison e Cassidy. Vite diverse e condivise, nelle quali ognuno ha un bisogno vitale e nessuno la forza interiore di dare priorità a quel bisogno.

Tre coscienze che sembrano senza speranza: chi sente la necessità di rimanere ancorato alla realtà ma è incapace di decidere della propria strada; chi, soffocato dall’ansia ambientalista, sembra per un momento ricomporre le proprie priorità ma lasciando che restino un esercizio mentale; chi potrebbe, vorrebbe, agire, ma è lasciato solo e siccome non viviamo nel mondo perfetto…

Intorno a loro, un mondo di personaggi che sembrerebbero assurdi se non fossero così tristemente reali, e poi il denaro, l’egoismo, la falsa percezione di sé stessi, il nulla espresso dall'”idea di oggetto” perché l’oggetto in sé non è più di moda, nessun concetto ma forme vuote, vite vestite con abiti scelti da altri.

Distopico si e no. Inquietante sicuramente. Ma l’inquietudine, almeno fino all’ultima parte, è espressa quasi con grazia. È questo che dà un tocco particolare alla narrazione.

“Il fuoco basso, terrestre, si muove come liquido sul terreno, un liquido alieno, denso di luce che sale su colline e tronchi, che dalla robusta base del chaparral corre ad abbracciarne i rami e scaldare le spesse foglioline dentute finché non fioriscono fiamme”.

Le parole scelte per descrivere scene o stati d’animo risultano quasi delicate, non c’è nulla di spaventoso. Sul momento.

Sono parole che “scendono” bene, vengono recepite senza scossoni. Quelli arrivano qualche secondo dopo, quando si è già al paragrafo successivo e improvvisamente viene da pensare “No, aspetta un momento”, e si torna indietro, a rileggere la frase precedente, che improvvisamente ha un sapore diverso, come diverso è il sapore di AQVA rispetto all’acqua (posso solo dire che AQVA e acqua sono gli altri protagonisti del romanzo).

Il mio ringraziamento di libraia a Black Coffee per le scelte editoriali sempre “diverse”. Scelte che hanno qualcosa da dire, ma non lo sbandierano come fosse uno striscione pubblicitario e che per questo motivo forse scendono più in profondità.

Alexandra Kleeman, “Qualcosa di nuovo sotto il sole”, Ed. Black Coffee, trad. Sara Reggiani, € 18,00

Recensioni della libraia – Via verso la notte

Lui è Chuck Deckle e lavora nel mercato della carne. Ha voluto ribellarsi al conformismo borghese dei genitori e della loro classe sociale, ma questo non appartenere ad un mondo lanciato verso il profitto sembra condannarlo a esperienze sempre più umilianti sul piano umano, e ad ambienti sporchi, puzzolenti e cattivi su quello professionale. La sua è una lotta quotidiana con persone abbruttite dal lavoro, dall’ignoranza, dalla fame di profitto, dalla precisa volontà di sfruttamento. L’unica certezza sembra essere la strada intrapresa verso l’inferno lavorativo, eppure…

“Mi dispiaceva per lui e per tutti quelli come lui che vivevano in un mondo senza meteoriti, senza stelle, senza Via Lattea, pianeti, comete e quasar, senza niente di strano e misterioso, in un microcosmo affollato al centro del quale alcuni uomini responsabili lavoravano e lottavano e gli altri erano troppo stupidi per fare altrettanto. Questo era il mondo di Howie, un mondo senza cielo, e se mai si fosse avventurato sulla spiaggia di Miami, abbastanza lontano dalle luci degli alberghi per poter vedere le stelle, il suo unico pensiero sarebbe stato: “Ma perché cazzo la gente non lavora di più?”

La giornata di Chuck comincia di notte; la dimensione della New York che ha imparato a conoscere è molto diversa da quella che la maggior parte della gente percepisce. È una città che vive di sé stessa, intima, una città che rivela segreti di bellezza che ai più restano invisibili. Le luci hanno una poesia. Gli odori hanno una poesia. I gas di scarico hanno una poesia. E anche quello che ci si immagina scorra sotto all’asfalto ha una propria poesia.

E lui è capace di trovare questa bellezza di notti piovose nelle zone industriali della città; la riconosce nelle luci e nei colori bagnati dei neon; impara a distinguere gli odori, quelli che noi disprezziamo, e trova la chiave per rendere tutto ciò un’esperienza.

“La notte fa un suono, non un insieme di suoni, ma un unico, lungo, stanco, interminabile suono, il suono di una città vivente, annebbiata dal sonno, quando le auto stanno sognando sotto i lampioni ambrati, ricoperte di polvere estiva… […]”

“Il fine settimana è una qualità della luce, un mutamento nel registro dei clacson e delle voci, e potevo sentire le pulsazioni del venerdì sera in città nei fanalini posteriori delle macchine che lampeggiavano in coda verso la galleria, per andare agli spettacoli di Broadway; potevo sentire il peso del lavoro che iniziava a sollevarsi mentre il pullman sfrecciava tra le piastrelle gialle del tunnel”.

Spera certamente in qualcosa di più, ma nel frattempo si accontenta; sogna, ma si rifugia nel cantuccio sicuro:

“E d’improvviso capii, con la chiarezza dei puntini luminosi nel mio bicchiere di Chablis, che volevo rimanesse grassa. Fin quando fosse stata grassa eravamo sicuri insieme, io potevo proteggerla nelle sue crisi da gelato e lei poteva consolarmi quando il mio lavoro andava male. Volevo soltanto rilassarmi, stare con lei e commiserarci per anni e anni…

Allen regala un libro che non vorremmo terminare mai, perché quando ci entriamo scopriamo all’improvviso di avere fame non solo di ciò che Chuck vede, ma di “come” lo vede; scopriamo il piacere di trovare epifanie improvvise (positive, negative, non importa) e dopo che le abbiamo assaporate le aspettiamo, le cerchiamo, ci apriamo totalmente alla possibilità, pagina dopo pagina, di trovarne un’altra. I passaggi dall’incrollabile positività di Chuck alla sua perplessità, alla rabbia, per ritrovare poi il proprio animo originale, risvegliano (o svegliano) sensazioni alle quali non pensavamo più da tempo.

È questo il tipo di emozione che regala questo romanzo. È emozione per la vita e per l’umanità (e, ripeto, si tratta anche di emozioni negative).

L’augurio è che tutti lo leggano, perché non farlo significherebbe perdere molto, in termini di sentimenti, di sensazioni, e della consapevolezza di quello che significa saper davvero scrivere.

Edward Allen, “Via verso la notte”, traduzione Marco Papi, ed. Mattioli 1885, € 18,00

Recensioni della libraia – Le Cugine

Grottesco e poetico, brutale e commovente.

Situazione di partenza: Yuna sembra avere un certo ritardo mentale; la sorella è orribilmente deforme motivo per cui, bambina, lei la odia; la madre è stata abbandonata dal marito e probabilmente sfoga le proprie frustrazioni sugli alunni; la zia è una “zitella” piena di fobie, follie, e aggrappata alle convenzioni; la cugina Carina una vittima; la cugina Petra, altra vittima ma anche carnefice….Proprio tutti gli ingredienti per dire “anche no”.

SBAGLIATO. SBAGLIATISSIMO. (d’altronde chi mi segue sa che non farei una recensione su uno strappalacrime, quindi proseguite pure tranquilli)

Protagonista e voce narrante, Yuna racconta sé stessa e la propria famiglia, piccolo mondo di menomazioni e deformità, con un linguaggio (due in realtà, ma del secondo parlerò più avanti) del tutto particolare, perché è il linguaggio che, a suo dire, scaturisce dalla minorazione mentale che la porta a capire in ritardo ciò che la circonda.

Perfettamente consapevole della propria condizione, la bambina, che vediamo crescere e diventare donna, cerca faticosamente di migliorarsi per rientrare nel canone “persone normali”. Il lettore stesso percepisce i cambiamenti espressivi nella scrittura, che partendo dall’assenza di punteggiatura per “non confondere i pensieri”, diventa poco a poco più lineare.

“Confondere i pensieri”. La mancanza di una punteggiatura adeguata ha una spiegazione diversa da quella che lei definisce minorazione: Yuna non può usare i punti (e anche con le virgole ha qualche problema) perché il punto richiede una pausa e una logica per costruire la frase successiva. Tuttavia durante queste pause i pensieri le si affollano in testa, le sensazioni si fanno lo sgambetto l’una con l’altra, e il risultato è che, lungi dal mettere ordine nella narrazione, la punteggiatura diventa l’origine di una torre di emozioni che crolla a confondere tutto. Quando termina una frase con un punto, infatti, deve sottolineare che si tratta di una pausa, perché questo è il suo sistema per dare continuità al pensiero.

La minorazione di Yuma in realtà è accompagnata da un’eccessiva capacità di “sentire” le situazioni, le persone e le proprie emozioni. La bambina, e poi la donna, ha una percezione immediata della realtà e di quello che le sta dietro, e l’urgenza di esprimere in qualche modo ciò che “vede” trova nel disegno il proprio medium. E questo è il secondo linguaggio – quello poetico – del romanzo: la capacità di Yuna di esprimere con colori quello che non riesce (o non può) esprimere a parole e la capacità di Venturini di metterci davanti a dipinti inesistenti e farci cogliere immediatamente l’emozione che sta dietro e dentro ad essi. Come fossimo davvero davanti ad un quadro.

È un romanzo poetico e al tempo stesso di uno humor nerissimo, con una descrizione delle disgrazie umane che di primo acchito risulta quasi imbarazzante, per noi che oggi cerchiamo di ingentilire situazioni che potrebbero essere offensive.

Il linguaggio totalmente privo di filtri della protagonista riscrive i drammi famigliari, le vendette colorate di “femminismo” e le idiote convenzioni sociali, ponendoli in un mondo grottesco, dal quale poco alla volta la crescita anagrafica e intellettuale e la conseguente presa di coscienza della protagonista saranno in grado di estrarre una sentimento di comprensione da cui deriva anche la pietà umana.

Plauso a Venturini la cui feroce ironia permette di digerire quanto di più crudo al mondo, senza strapparsi i capelli ma ragionando sull’essere umano.

Un romanzo di formazione del pensiero critico, i cui i passi permettono al sentire umano di comprendere l’altro da sé, nel bene ma anche nel male, e di maturare.

“Credo che il dizionario mi aiuti, credo che supererò le difficoltà che prima credevo insuperabili per non parlare di quello che ho in mente ed è che se esco completamente dalle mie minorazioni andrò a vivere da sola perché tutta questa gente mi stanca e io vedo nel profondo anche se parlo in modo superficiale e questo che vedo in profondità non mi piace e da lontano mi farà meno male o non mi importerà perché di minuto in minuto mi allontano sempre di più da quella che chiamano famiglia e di minuto in minuto ho più considerazione di me stessa. Comprai una grande tela per dipingere il mio mondo.”

Aurora Venturini, “Le cugine”, traduzione Francesca Lazzarato, edizioni Sur, € 16,50.

Recensioni della libraia- La Sera, Susan Minot

Bellissimo e toccante, ma per chi sa davvero lasciarsi guidare dalle sensazioni (non dalle emozioni).

Ann sta morendo: è obbligata a letto dalla malattia e la sola cosa che può fare è rivedere la propria vita. Uso il verbo “rivedere” di proposito, perché non tutto quello che veniamo a sapere da lei è un pensiero voluto o un ricordo cercato. Ci sono anche momenti nei quali appaiono immagini apparentemente casuali del passato, quelle rimaste nella coscienza ma ricoperte da anni di vita, di polvere, di altri ricordi.

E vita lei ne ha avuta tanta: tre mariti, cinque figli, viaggi, amici, possibilità. Una vita che conosceremo attraverso vari periodi scanditi ogni volta da un cognome differente. Una donna, ma anche quattro, a partire da quella Ann Grant, ancora ragazza, che scoprirà sé stessa all’improvviso.

I cognomi definiscono i salti temporali, ne sono la cornice; sono salti temporali continui e in alcuni momenti anche caotici, perché è caotico il “qui e ora”, nel letto, nella malattia che impone dolore, crea confusione, vuole morfina, annebbia e qualche volta schiarisce i pensieri.

I rumori, i colori della natura, il dolore, i parenti i figli gli amici che vogliono salutarla, tutto le riporta ricordi, e tra i tanti uno è costante: una passione enorme, vissuta fisicamente il tempo di un fine settimana, ma rimasta nella coscienza tutta la vita, a volte riconoscibile, altre nascosta sotto la superficie e apparentemente dimenticata.

Le sensazioni fisiche che Ann ricorda sono potentissime e credo che chiunque le abbia vissute sarà in grado di riconoscerle e riconoscersi. Non rimangono solo nel pensiero, ma sulla pelle, nei nervi, ovunque.

Non possono essere cancellate. Nulla può cambiare quello che è già avvenuto. Anche se non dura, perché dura nella memoria, e la memoria è un luogo concreto.

Una scrittura che ha la forza incredibile di visualizzare il formarsi dei pensieri e che sa cogliere (e aiuta a cogliere) nei momenti drammatici sia la maledizione che la benedizione.

Susan Minot, “La sera”, ed, Playground, trad. Bernardo Anselmi, € 18,00

Recensioni della libraia Cristo fra i muratori

Un libro “enorme” perché tocca profondamente molte corde, ed ognuna, se lo permettiamo, si apre ad importanti approfondimenti.

Appare come un romanzo autobiografico e tuttavia, grazie a Dio aggiungo io, qui l’autobiografia passa in secondo, terzo, quarto piano: non viene in mente, al lettore, di piangere sulle disgrazie personali di Paul/Pietro. Perché è una storia corale e un’epica.

È una storia nella quale entrano e “si ammassano” (è il caso di dirlo) una miriade di personaggi, a creare un mondo-fotografia di quel mondo che avevano a casa: uomini che hanno costruito, spesso con il sangue, le case dove non avrebbero mai vissuto, case per quegli americani con le facce rosse come le bambole; donne che, mogli e madri, hanno contribuito a dare un senso a questa comunità; bambini, sempre troppi e troppo chiassosi ma anche improvvisamente consapevoli della propria realtà di disgraziati.

È un’epica costruita sul senso di comunità: una comunità rifiutata da tutti e che, anche, rifiuta molti (l’odio per gli inglesi e per i tedeschi, la quasi totale mancanza di interesse ad imparare la nuova lingua, che in fondo “vivendo tra di noi serve a poco”); un’epica che alla base ha il ricordo delle origini, ricordo che diventa bucolico quando il vino scorre, ma che non riesce ad annientare totalmente il sogno americano.

E c’è il Lavoro, scritto e pronunciato con la lettera maiuscola, perché è un’entità reale, mostruosa quando chiede sacrifici umani per nutrirsi, ma eroica quando regala dignità e orgoglio.

E la religione: una religiosità immensa, che oggi non faticheremmo a definire malata e quasi oscena. Ma lo diciamo dal mondo del terzo millennio, come persone che faticano a capire cosa potesse significare avere almeno la fede a cui aggrapparsi per non annegare. Per chi non aveva speranze, soffriva la fame qui e adesso (diversamente da noi che oggi siamo preoccupati per eventuali sacrifici richiesti tra qualche mese), era considerato “roba” da sfruttare e non aveva nessuna istruzione, la fede giocava lo stesso ruolo che aveva presso gli schiavi: l’ultima illusione a cui credere, perché non necessariamente sarebbero stati premiati in vita, ma permetteva di sognare un premio “dopo”. Unica speranza oltre la morte.

Quello che ho amato tantissimo è che il romanzo riproduce, anche nella struttura, i canoni della tragedia greca. La madre di Paul, Annunziata (la Madre) ha un doppio ruolo: la mamma del vivere quotidiano, alle prese con disgrazie, figli e famiglia; e poi è IL CORO. I pensieri di Annunziata, le sue preghiere, le domande che rivolge a Dio, le considerazioni, hanno anche una cifra stilistica un po’ diversa dal resto del testo: possiamo leggerle con lo stesso tono che riserveremmo al testo di un coro greco: raccontano e compendiano un pensiero, legano le parti, concludono un momento, si fanno voce di un’umanità.

Ancora un milione di appunti ci sarebbero su questo romanzo, ma penso di aver dato un paio di chiavi. le altre a voi.

“Cristo fra i muratori”, Pietro di Donato, trad. N. Manuppelli, ed. Reader fo Blind, € 19,00