
Lui è Chuck Deckle e lavora nel mercato della carne. Ha voluto ribellarsi al conformismo borghese dei genitori e della loro classe sociale, ma questo non appartenere ad un mondo lanciato verso il profitto sembra condannarlo a esperienze sempre più umilianti sul piano umano, e ad ambienti sporchi, puzzolenti e cattivi su quello professionale. La sua è una lotta quotidiana con persone abbruttite dal lavoro, dall’ignoranza, dalla fame di profitto, dalla precisa volontà di sfruttamento. L’unica certezza sembra essere la strada intrapresa verso l’inferno lavorativo, eppure…
“Mi dispiaceva per lui e per tutti quelli come lui che vivevano in un mondo senza meteoriti, senza stelle, senza Via Lattea, pianeti, comete e quasar, senza niente di strano e misterioso, in un microcosmo affollato al centro del quale alcuni uomini responsabili lavoravano e lottavano e gli altri erano troppo stupidi per fare altrettanto. Questo era il mondo di Howie, un mondo senza cielo, e se mai si fosse avventurato sulla spiaggia di Miami, abbastanza lontano dalle luci degli alberghi per poter vedere le stelle, il suo unico pensiero sarebbe stato: “Ma perché cazzo la gente non lavora di più?”
La giornata di Chuck comincia di notte; la dimensione della New York che ha imparato a conoscere è molto diversa da quella che la maggior parte della gente percepisce. È una città che vive di sé stessa, intima, una città che rivela segreti di bellezza che ai più restano invisibili. Le luci hanno una poesia. Gli odori hanno una poesia. I gas di scarico hanno una poesia. E anche quello che ci si immagina scorra sotto all’asfalto ha una propria poesia.
E lui è capace di trovare questa bellezza di notti piovose nelle zone industriali della città; la riconosce nelle luci e nei colori bagnati dei neon; impara a distinguere gli odori, quelli che noi disprezziamo, e trova la chiave per rendere tutto ciò un’esperienza.
“La notte fa un suono, non un insieme di suoni, ma un unico, lungo, stanco, interminabile suono, il suono di una città vivente, annebbiata dal sonno, quando le auto stanno sognando sotto i lampioni ambrati, ricoperte di polvere estiva… […]”
“Il fine settimana è una qualità della luce, un mutamento nel registro dei clacson e delle voci, e potevo sentire le pulsazioni del venerdì sera in città nei fanalini posteriori delle macchine che lampeggiavano in coda verso la galleria, per andare agli spettacoli di Broadway; potevo sentire il peso del lavoro che iniziava a sollevarsi mentre il pullman sfrecciava tra le piastrelle gialle del tunnel”.
Spera certamente in qualcosa di più, ma nel frattempo si accontenta; sogna, ma si rifugia nel cantuccio sicuro:
“E d’improvviso capii, con la chiarezza dei puntini luminosi nel mio bicchiere di Chablis, che volevo rimanesse grassa. Fin quando fosse stata grassa eravamo sicuri insieme, io potevo proteggerla nelle sue crisi da gelato e lei poteva consolarmi quando il mio lavoro andava male. Volevo soltanto rilassarmi, stare con lei e commiserarci per anni e anni…
Allen regala un libro che non vorremmo terminare mai, perché quando ci entriamo scopriamo all’improvviso di avere fame non solo di ciò che Chuck vede, ma di “come” lo vede; scopriamo il piacere di trovare epifanie improvvise (positive, negative, non importa) e dopo che le abbiamo assaporate le aspettiamo, le cerchiamo, ci apriamo totalmente alla possibilità, pagina dopo pagina, di trovarne un’altra. I passaggi dall’incrollabile positività di Chuck alla sua perplessità, alla rabbia, per ritrovare poi il proprio animo originale, risvegliano (o svegliano) sensazioni alle quali non pensavamo più da tempo.
È questo il tipo di emozione che regala questo romanzo. È emozione per la vita e per l’umanità (e, ripeto, si tratta anche di emozioni negative).
L’augurio è che tutti lo leggano, perché non farlo significherebbe perdere molto, in termini di sentimenti, di sensazioni, e della consapevolezza di quello che significa saper davvero scrivere.
Edward Allen, “Via verso la notte”, traduzione Marco Papi, ed. Mattioli 1885, € 18,00