
Un libro “enorme” perché tocca profondamente molte corde, ed ognuna, se lo permettiamo, si apre ad importanti approfondimenti.
Appare come un romanzo autobiografico e tuttavia, grazie a Dio aggiungo io, qui l’autobiografia passa in secondo, terzo, quarto piano: non viene in mente, al lettore, di piangere sulle disgrazie personali di Paul/Pietro. Perché è una storia corale e un’epica.
È una storia nella quale entrano e “si ammassano” (è il caso di dirlo) una miriade di personaggi, a creare un mondo-fotografia di quel mondo che avevano a casa: uomini che hanno costruito, spesso con il sangue, le case dove non avrebbero mai vissuto, case per quegli americani con le facce rosse come le bambole; donne che, mogli e madri, hanno contribuito a dare un senso a questa comunità; bambini, sempre troppi e troppo chiassosi ma anche improvvisamente consapevoli della propria realtà di disgraziati.
È un’epica costruita sul senso di comunità: una comunità rifiutata da tutti e che, anche, rifiuta molti (l’odio per gli inglesi e per i tedeschi, la quasi totale mancanza di interesse ad imparare la nuova lingua, che in fondo “vivendo tra di noi serve a poco”); un’epica che alla base ha il ricordo delle origini, ricordo che diventa bucolico quando il vino scorre, ma che non riesce ad annientare totalmente il sogno americano.
E c’è il Lavoro, scritto e pronunciato con la lettera maiuscola, perché è un’entità reale, mostruosa quando chiede sacrifici umani per nutrirsi, ma eroica quando regala dignità e orgoglio.
E la religione: una religiosità immensa, che oggi non faticheremmo a definire malata e quasi oscena. Ma lo diciamo dal mondo del terzo millennio, come persone che faticano a capire cosa potesse significare avere almeno la fede a cui aggrapparsi per non annegare. Per chi non aveva speranze, soffriva la fame qui e adesso (diversamente da noi che oggi siamo preoccupati per eventuali sacrifici richiesti tra qualche mese), era considerato “roba” da sfruttare e non aveva nessuna istruzione, la fede giocava lo stesso ruolo che aveva presso gli schiavi: l’ultima illusione a cui credere, perché non necessariamente sarebbero stati premiati in vita, ma permetteva di sognare un premio “dopo”. Unica speranza oltre la morte.
Quello che ho amato tantissimo è che il romanzo riproduce, anche nella struttura, i canoni della tragedia greca. La madre di Paul, Annunziata (la Madre) ha un doppio ruolo: la mamma del vivere quotidiano, alle prese con disgrazie, figli e famiglia; e poi è IL CORO. I pensieri di Annunziata, le sue preghiere, le domande che rivolge a Dio, le considerazioni, hanno anche una cifra stilistica un po’ diversa dal resto del testo: possiamo leggerle con lo stesso tono che riserveremmo al testo di un coro greco: raccontano e compendiano un pensiero, legano le parti, concludono un momento, si fanno voce di un’umanità.
Ancora un milione di appunti ci sarebbero su questo romanzo, ma penso di aver dato un paio di chiavi. le altre a voi.
“Cristo fra i muratori”, Pietro di Donato, trad. N. Manuppelli, ed. Reader fo Blind, € 19,00