
TRUST, Hernan Diaz, Feltrinelli, € 19,00
A caldo.
Appena terminato.
L’impressione di aver letto qualcosa di diverso, qualcosa che forse c’è già stato, ma da molto tempo non c’è più.
E accorgersi che in questo momento si sta scrivendo come uno dei personaggi.
Accorgersi di essere rimasta dentro al libro.
Temi che pensavo lontani anni luce da me e che improvvisamente mi affascinano con la loro serie di cause, concause ed effetti ( “il passato che diventa presente nel futuro”), e io che non riesco a staccarmi da loro. Personaggi che incartano i proprio pensieri su sé stessi per significare le proprie vite al mondo. Altri che invece ne danno spietatamente conto. O che giustificano la fascinazione che la ricchezza esercita, e cercano una scusa – una motivazione – per il loro esitare davanti ai principi che fino ad allora hanno governato la loro vita , nella speranza di autoassolversi, piegando, ripiegando e spiegando i propri pensieri nel desiderio di essere persone coerenti. E così risultare ancora più nudi agli occhi esterni.
Da parte di quasi tutti i personaggi, questa storia è il tentativo di raccontare a sé stessi quella verità che vorrebbero raccontare al mondo. Vero per tutti tranne che per chi riesce a farlo in modo naturale e freddo (mi verrebbe da dire naturalmente cinico). È la storia di un crimine dimenticato che urla la propria esistenza e la propria evidenza: la consapevolezza del costo umano della ricchezza, quella prodotta dall’alta finanza ma anche quella precedente, da sempre. È la storia di manovre di vario genere: in Borsa, nella storia, nella propria mente, in quella degli altri, nella vostra. Tutte le accezione del termine Trust sono qui.
È un romanzo riflessivo per tutti: per i personaggi e per il lettore. E l’escamotage strutturale è assolutamente imperdibile perché a chi è abituato a leggere – ma anche a chi non riesce a leggere molto – regala una soddisfazione mentale abbastanza rara ultimamente.

CASA FATTA DI ALBA, N. Scott Momaday, ed. Black Coffee, € 20,00
La storia di un nativo americano, Abel, che tornando a casa dopo la guerra non riconosce il proprio mondo né, in quel mondo, sé stesso. Tutta la cultura nativa, dalla quale e nella quale era stato plasmato, sembra scivolare fuori dalla sua anima, senza che lui trovi una soluzione diversa dall’alcol. Nonostante ciò, quella cultura, in qualche punto profondo e molto nascosto, ha ancora radici in grado di lavorare. Lo faranno con la medicina dei canti tradizionali.
L’apparente (forse) difficoltà di lettura è uno dei motivi che credo dia valore al libro. Il lettore è, prima di tutto, forzato ad entrare in una cultura pressoché sconosciuta e ad accettarla, e a trovarsi davanti ad una natura apparentemente riconoscibile, fino a che non diventa a tratti “mostruosa” per eccesso di colori e di carnalità. Sempre osservatrice e testimone esterna e “altra”.
C’è molta anima in questo romanzo; molta anima, molta sofferenza, molta difficoltà e molta volontà. Soprattutto c’è molta poesia: in una scrittura sicuramente diversa si aprono interi paragrafi di una poesia sconvolgente e commovente nella sua bellezza.
“L’aquila padroneggia sopra la terra, giungendo più lontana di qualsiasi altra creatura, e tutte le cose di lassù sono legate tra loro per il semplice fatto che esistono nella visione di un uccello. Queste, e innumerevoli creature più basse – la lucertola e la rana, l’insetto e il verme – sono padrone della terra. Gli altri animali, più recenti […] hanno una sembianza estranea e inferiore, […]che le rende aliene alla terra selvaggia […].Nascono e muoiono sulla terra, ma poi scompaiono come se non fossero mai esistite. La loro polvere è portata via dal vento e le loro grida non hanno eco nella pioggia e nel fiume, nella confusione di ali, nel rientro di rami piegati dal passaggio di oscure forme all’alba e al crepuscolo.”

Willy Vlautin (qui l’immagine dell’ultimo romanzo pubblicato, ma in realtà la recensione è per tutto quanto scritto dall’autore). Tutto Vlautin è edito da Jimenez
Willy Vlautin non è solo romanziere; è prima di tutto cantautore. Un cantautore che mette in musica la provincia americana, e i suoi romanzi fanno lo stesso. Parla dei dimenticati, di quelli che probabilmente non avranno mai chances nella vita.
Siamo abituati a conoscere autori che per gran parte della loro esistenza sono stati schiavi di alcol e droghe: ecco, loro la possibilità l’hanno avuta, e si è chiamata scuola, borsa di studio, o un certo genere di famiglia alle spalle. E hanno potuto parlarne. I personaggi di Vlautin hanno famiglie che non si accorgono se i figli frequentano o meno la scuola, famiglie spesso devastate esattamente come loro. Sono ragazzi che abusano di alcol da quando sono molto giovani, o che semplicemente vivono una vita che non ha conosciuto altro e altro non conoscerà. Ma sanno che esiste un sogno americano, lo vedono ma non riescono ad arrivarci. Sono dei predestinati: predestinati alla stessa vita, senza possibilità di riscatto perché invisibili alla società e fondamentalmente anche ai governi. Qualche volta, fortunatamente, si palesa una via d’uscita, una mano che viene tesa casualmente. Ma alla fine delle storie non ne abbiamo mai la certezza, e sta al lettore mantenere la speranza che dopo il punto finale quella vita possa davvero avere una svolta più umana. Questo sì, Vlautin ce lo concede (anche se non sempre): è possibile, anche se non probabile, e l’autore lo racconta come in una canzone dedicata, con partecipazione, con comprensione, a uomini e donne che per altri non esisteranno mai.
Il mio consiglio è di leggerlo perché racconta la realtà che sui giornali non leggiamo e spiega molto di questo Paese, ma anche di ascoltare qualche suo brano perché aiuta davvero a entrare nei libri con il “tono” giusto, e perché è facile capire la connessione tra musica e scrittura.

SNAKEHUNTER, Chuck Kinder, Jimenez edizioni, € 18,00
È come entrare in un dipinto con i colori della terra e le pennellate dense, pastose.
Le immagini – e i pensieri – escono dalla pagina e si lasciano percepire con tutti i sensi; è come se avessero una dimensione reale. Snakehunter è un romanzo “carnale”.
I pensieri di Speer sulla vita, sull’essere umani sono offerti “en passant” e vestiti di una poesia estrema o travestiti da metafore: gli insetti, l’oscurità, i racconti fantastici e spaventosi di zia Catherine, l’incredibile bellezza della mamma che, pur presente, sembra già allontanarsi verso il mondo dei ricordi; e i ricordi stessi, forse l’unica vera realtà alla quale aggrapparsi, tanto da incominciare a costruire nel presente ciò che nel futuro sarà il pensiero del nostro passato.
Non so se questo possa considerarsi un romanzo di formazione. Forse. Ma la certezza è la spettacolare scrittura di Chuck Kinder, che crea intorno al lettore un mondo che lo avvinghia con i suoi personaggi, ma ancor più con gli animali, con i giochi di luci e ombre sui visi e sulle cose, con le radici degli alberi.
Un mondo fantastico e molto molto reale che una zia un po’ folle e alcolizzata sa di dover lasciare in eredità a qualcuno.
Ecco, Snakehunter è questa cosa qui.
“Ma un tempo era un fiume meraviglioso. E io me lo ricordo com’era”.
“Anch’io adesso lo ricordo, nonno” gli dissi. “Il fiume e tutto il resto”.
“Non ti capisco, amico”.
“Be’ mi hai raccontato tutte queste cose sul fiume, così adesso posso ricordarle anch’io. Come fai tu. In questo modo rimarranno reali”.
“Sì, immagino che i ricordi servano anche per questo. Sei più o meno l’unico che sembra dare loro una certa importanza”.
“Sai, nonno, io voglio delle cose da ricordare. Non ho tutti i ricordi che avete tu o zia Erica. O chiunque altro. E ne voglio avere un sacco. Di cose da ricordare, intendo”.

LA CRONOLOGIA DELL’ACQUA, Lidia, Yuknavitch, Nottetempo, € 17,00
Premessa: questa recensione comincia quando ho scritto semplicemente di non sapere se avevo letto un libro molto bello o una cavolata pazzesca.
Seconda premessa: Chuck Palahniuk lo ha trovato straordinario, lo ha letto dodici volte, quindi probabilmente dovrei chiuderla qui. Scopro però che Palahniuk condivide con l’autrice il gruppo di scrittura. Ci ripenso.
“La cronologia dell’acqua”, scritto autobiografico, è un romanzo molto molto rabbioso, o meglio: dovrebbe essere, è, un libro catartico, perciò parte in modo davvero violento e volgare – anche per chi è abituato a leggere di tutto.
L’autrice intende “vomitare” (scelta del termine non casuale) addosso al lettore quelli che erano i suoi stati d’animo nel momento preciso in cui li viveva, in un crescendo di eccitazione sia sessuale che dovuta ad alcol e droghe. O tutte e tre le cose insieme. È un romanzo che nasce da un precedente racconto, quindi la rabbia che vi esplode è già storia. Ma ok. La partenza deve essere liberatoria (non una partenza fulminante, trattandosi di un centinaio di pagine), il linguaggio serve a questo e – credo – a rendere l’idea di una volontà di auto annientamento. La liberazione è molto graduale; la pagina scritta rimanda perfettamente questa gradualità: il lettore incomincia a respirare e subito il respiro viene mozzato da una ricaduta. Ma a poco a poco la progressione c’è, e la maturità dell’autrice/protagonista, insieme ai cambiamenti che riesce a imporre alla propria vita e all’accresciuta consapevolezza di sé e degli altri, si traducono naturalmente anche in una lingua più “ortodossa”.Ci sono pagine molto belle: sono quelle in cui Yuknavitch prova a spiegare cosa il nuoto significhi per lei, e sono quelle nelle quali parla di scrittura, di creazione. Mi riappacifico con il furore precedente. In qualche modo, come un pensiero che appare di sfuggita attraversando qualche pagina, mi viene in mente McDaniel: meno magia, più prosaicità, ma una volontà simile di mostrare la propria disgraziata esperienza attraverso una bolla che la separa dal resto del mondo.
(Di McDaniel preferisco l’uso del linguaggio, di Yuknavitch la struttura narrativa).
Lascio un avvertimento per chi vorrà leggere il libro: pronti a non mollare dopo cinquanta pagine. Scriverlo ha sicuramente richiesto uno sforzo all’autrice. Leggerlo ne richiede uno al lettore.

QUESTE MONTAGNE BRUCIANO, David Joy, ed. Jimenez, € 19,00
Il cielo del North Carolina è nascosto dal fumo degli incendi che stanno devastandone i boschi; il paesaggio è sommerso da una fitta cenere che ricopre ogni cosa. Come il fumo soffoca le case la vita sembra soffocare i personaggi di questo noir. È la conseguenza del disfacimento di una cultura, è la perdita di radici, l’essersi dimenticati, nel nome dei soldi e delle comodità, di chi e di cosa si è stati.
” Il lavoro arrivò grazie alle allettanti promesse di forestieri che guidavano belle macchine e indossavano vestiti eleganti, e sparì di nuovo ripiegato nei loro portafogli in pelle di struzzo quando tutto ciò che poteva essere preso era stato preso. I lavoratori li rincorsero agitando le braccia tra la polvere e i gas di scarico, impolverati e sfiniti, affannati, sconfitti, distrutti, e quando alla fine si accasciarono e si fermarono, si guardarono attorno e si resero conto che si trovavano in un posto che non conoscevano più, che si erano persi come cani che inseguono le proprie code.”
Soldi e comodità si pagano, e si pagano con interessi che a volte sono altissimi. L’ha capito, o forse lo sa da sempre, Denny, tossicodipendente che vede sé stesso con estrema chiarezza, che ha fatto e continua a fare scelte sbagliate, ma che non si può fare a meno di sentire vicino proprio perché l’analisi lucida che fa di sé suscita un sentimento molto vicino alla tenerezza.
“Quando un uomo arriva alla fine di qualcosa, un conto è guardarsi le mani e vedere che la propria vita è andata in pezzi, ma un altro conto è guardarsi indietro e vedere che tutto è andato distrutto a causa sua. Le vite possono andare in una sola direzione e quello che rimane indietro è una cosa potente e permanente. Per tanto tempo lui si era rifiutato di voltare la testa. Adesso non poteva sopportare il pensiero di andare avanti”.
È un ambiente di tossicodipendenti, e nonostante questo la droga non è probabilmente il problema principale di questo pezzo d’America che è tutta quell’America lontana dalle grandi città e dalle grandi ricchezze. La droga ne è l’effetto, è quello che resta quando per far contenti i turisti gli indiani danzano ad occhi chiusi con un copricapo di piume, nonostante la loro tribù non abbia mai indossato copricapi di piume. Secondo Ray – uomo della “vecchia guardia”, che ricorda tempi diversi e che ormai sembra disilluso davanti allo spettacolo di questa realtà dalla quale sono caduti tutti i veli – la colpa è anche degli abitanti che hanno permesso ad altri di venire a stabilire nuove regole dove funzionavano benissimo quelle morali insite nell’animo degli esseri umani: quando quello che bisognava fare lo si faceva come andava fatto e non come oggi “altri” dicono che vada fatto.
C’è una speranza? Alla fine della lettura non ne siamo ancora sicuri. Forse, ma appesa ad un filo quasi invisibile.

ASSASSINIO NEL VENTO, John D. MacDonald, ed. Mattioli 1885, € 15,00
MacDonald costruisce questo giallo in maniera magistrale. Ci presenta, poco alla volta, un gruppo di personaggi provenienti da vite e storie personali diverse e che si trovano riuniti per puro caso nel tentativo di sfuggire ad un uragano. Nei vari capitoli poco alla volta escono le personalità degli uni e degli altri in maniera così coinvolgente che il lettore ad un certo punto dimentica anche il titolo del romanzo. Sappiamo che ci stiamo avvicinando a qualcosa, come l’uragano Hilda si avvicina alla costa e a questo gruppo di persone, ma diventa importante il “qui adesso” più ancora che quello che potrebbe succedere. L’evoluzione dei protagonisti, insieme alla loro storia precedente, è quello che tiene incollati alla pagina, il capire chi sia quello forte e chi quello debole diventa in nostro giallo personale.
“Lei non era stupida. Era abituata a ricevere rifiuti. Era abbastanza consapevole che il mondo fosse pieno di uomini pronti a fingere amore solo per poter sposare tutti i suoi soldi. E sapeva che Bunny faceva parte di loro. Ne era certa. Ma aveva già imparato a conoscerlo abbastanza da non riuscire a biasimarlo troppo.[…]Sapeva che si stava prendendo in giro da sola, eppure aveva deciso di andare avanti, di aspettare e sposarlo, sapendo che stava semplicemente comprandosi con i soldi qualcosa di importante per lei.”
LORNA MOTT TORNA A CASA, Diane Johnson, ed. Blu Atlantide (Atlantide), € 18,50

“Ne aveva già avuto sentore durante l’intervento in chiesa, ma adesso ne aveva la certezza: era tutto finito; era finita lei, erano finite le conferenze, o era finita la sua capacità di rendere avvincente quel genere di performance tipica di un altro tempo e che non aveva più alcuna presa nel ventunesimo secolo. Quella nuova consapevolezza la sconvolse e la svuotò, ma ne accettò l’ineluttabilità. Avrebbe dovuto adattarsi, tenere duro, però non sapeva come muoversi, e in quale direzione, in un Paese che non riusciva più a capire.”
Lorna Mott è una studiosa d’arte, è americana, è sulla sessantina, ha appena deciso di lasciare il secondo marito, dopo vent’anni condivisi in un paesino francese, ed è sicuramente emozionata per il fatto di tornare nel suo Paese d’origine, a “casa” in California, dove potersi occupare dei tre figli ormai adulti e avuti dal primo matrimonio.
Lo sconcerto arriva quando scopre che l’America del terzo millennio non è esattamente quella che aveva lasciato, quando legge che la città in cui vive ha un tasso di sicurezza del 2%, quando vede il rischio di finire in un loop nel quale le preoccupazioni per le vite e le finanze dei figli potrebbero risucchiarle tutte le energie; soprattutto quando comincia a sospettare di essere vecchia per il proprio lavoro, o almeno per come lo intendono gli americani, molto preparati sul mercato dell’arte, ma poco interessati alla stessa, se non in funzione puramente economica.
Lungo una serie di vicissitudini e di pensieri (quelli di Lorna, ma anche di tutti gli appartenenti alla sua famiglia allargata), Johnson presenta un “film” piuttosto sconfortante sull’America versione ventunesimo secolo: un Paese nel quale uomini e donne hanno mantenuto pensieri, pretese e aspettative nei confronti dell’altro sesso identiche a quelle del secolo precedente, ma soprattutto un Paese che ancora oggi, e forse più di prima, sembra soffrire di un grave senso di inferiorità culturale nei confronti dell’Europa, dal punto di vista umanistico, sociale e – udite udite – anche scientifico.
In effetti Diane Johnson (per due volte finalista al Pulitzer) fa un bell’omaggio al Vecchio Continente, e io ho il sospetto che noi apprezzeremo questo libro più di quanto non faranno gli americani.
Questo romanzo finisce tra i libri che consiglio a chi, dopo letture impegnative dal punto di vista di soggetto e/o struttura ha necessità di un’ottima pausa che non sia semplicemente uno svago, ma qualcosa che riesca – attraverso un tono leggero – a generare alcune considerazioni serie, grazie ai continui paragoni tra America e Europa, alla la visione che le donne hanno di sé stesse, al divario tra aspettative e realtà contro cui vanno brutalmente a sbattere le generazioni dei cinquantenni e dei sessantenni.

IL NOSTRO SIG. WRENN. Le avventure romantiche di un gentiluomo americano. S. Lewis, Antonio Mandese ed. € 20,00
Mr Wrenn, scapolo trentaquattrenne addetto alle vendite della Souvenir Company, sembrerebbe l’uomo anonimo per eccellenza.
Ma è un sognatore, un uomo che insegue da tutta la vita Paesi conosciuti sui libri, che sogna la cultura – quella europea – e lo fa con tanta forza che non appena ritiene di averne la possibilità abbandona tutte le certezze della sua anonimissima vita per imbarcarsi su una nave porta bestiame diretta in Inghilterra e iniziare il “suo” viaggio, come London, come gli esploratori dei suoi libri. Sulla nave poi succederà qualcosa: tra i mandriani, compagni di viaggi rozzi e un po’ violenti, Wrenn scoprirà di potersi trasformare in Bill Wrenn, praticamente un supereroe…per ricadere nelle sue timidezze appena mette piede in Inghilterra. Perché resta comunque un uomo ingenuo, timoroso quasi di tutto e soprattutto curioso. Wrenn è l’uomo che ripete costantemente “Ohhh!” ad ogni novità che entri nella sua vita; è l’uomo che si lascia invadere dalla meraviglia, è un Ulysses Macauley in versione adulta. Ed è un uomo che soffre terribilmente la propria solitudine, della quale aveva sentore in America, ma che diventa una certezza in Inghilterra, questa terra che non sembra volerlo accogliere con il suo stesso entusiasmo.
“Tornò al giardino zoologico e fece amicizia con una tigre che, sebbene provenisse probabilmente da una colonia inglese, era la cosa più amichevole che avesse visto per una settimana. Sbadigliò, ma gli permise di parlare a lungo con lei.“
È una scrittura delicata e ironica, nella quale sentiamo profondamente gli stati d’animo del protagonista, ma con la quale riusciamo a sorridere.
Io non scrivo, né mai lo farò, ma ci sono alcuni passaggi, anche frasi brevissime, che vorrei tanto aver saputo esprimere con la stessa grazia.
“In quelle immagini aveva scoperto la terra di tutti i suoi sogni abbandonati”.
In effetti la scrittura è ciò che più ho amato: quel raccontare un po’ d’antan che potrebbe apparire fuori tempo, ma che personalmente apprezzo moltissimo perché ritrovo il piacere di un linguaggio ricco, frizzante, che non ha bisogno di crudezze né di livellarsi a quello della vita quotidiana per comunicare un pensiero e per essere goduto in modo tale che la lettura sia proprio un momento di piacere. E dal punto di vista del contenuto anche i riferimenti al socialismo, a Heckel, a Nietzsche, alla società, alle Persone Interessanti, sparsi qua e là (apparentemente a caso e apparentemente leggeri) ci offrono il punto di vista dell’autore, senza mai essere “invasivi”.

STORIE DI VITE DIVERSE, BETTE HOWLAND, SEM, € 19,00
Bette Howland ci dà emozioni. O meglio, condivide con noi le emozioni che prova (con gusto e disgusto) nell’osservare le vite di chi le è intorno. Esistenze non necessariamente drammatiche, sicuramente complicate, spesso naïves. Racconta situazioni paradossali con un disincanto che si accompagna all’ironia (o viceversa), e con quella scrittura propria degli autori ebreo americani che, ognuno con uno stile personalissimo, mettono a fuoco l’America con una sensibilità diversa da tutti gli altri.
Nota personale: ritrovo qui Chicago e la sua gente dopo aver riletto da poco Saul Bellow, e mi perdo nei parallelismi e nelle differenze tra le descrizioni. (piaceri privati della lettura).
“Ora che ci penso, era una visione campestre, case come queste le vedi dai binari della ferrovia. Ce n’è minimo una alla periferia di ogni piccola città. Il recinto si incurva, il cancello oscilla sui cardini, i gradini andrebbero ripitturati, anche l’erba è arrugginita. Fusti, barili, passeggini per bambini […]. Vedi tavole di legno, mattoni, blocchi di cemento, fossati, mucchi di sabbia dappertutto, testimonianze di un progetto fai da te che il Signore nella sua infinita saggezza ha pensato bene di lasciare incompiuto.”

CANE DA PETROLIO, RICK BASS, MATTIOLI 1885, € 16,00
“Questi racconti sono strani”: così probabilmente qualcuno penserà nel leggerli.
E’ vero, lo sono, perché siamo sempre meno abituati a certi stili, a certe scritture, e, perché non dirlo, anche a certi soggetti.
Rick Bass non ci sta raccontando un mondo facilmente riconoscibile; eppure i luoghi li possiamo facilmente immaginare, e anche i personaggi non sono mai del tutto estranei alle nostre esperienze di lettura. MA quello che ci colpisce, ragionandoci, è l’utilizzo che l’autore fa degli uni e degli altri, è come li mischia fino a farli diventare qualcosa di mistico. Troviamo paesaggi che paiono irreali abitati da personaggi con vite e pulsioni plausibili, e luoghi reali con protagonisti al limite del fiabesco.
I ragazzi che giocano vicino al fiume avvelenato, il “cane da petrolio”, gli amanti che scelgono di vivere in una bolla naturale distante da tutto, tutti compiono azioni comprensibili, e tuttavia la narrazione ha un’aria quasi magica. È come se i personaggi, mentre vivono, cercassero di superare la dimensione che è stata loro data e questo li portasse a vivere una serie di epifanie.
E le descrizioni sono molto “pittoriche”, non saprei come dirlo altrimenti: “le colline d’argilla trasformate in strati di rosso assassino” dalla pioggia, le vediamo e ne sentiamo la consistenza; sentiamo l’odore dei bar dove di notte si radunano uomini arrabbiati e pronti a menare le mani o a scommettere su chi lo fa; sentiamo il tepore del sole e ne vediamo la luce sfocata su un vetro sporco.
Non sono storie che possono passare per favole, no, però questa scrittura, con tutte le differenze del caso mi ha ricordato Robert Nathan. Nathan certamente più delicato, ma è la capacità di far entrare il lettore in una atmosfera irreale che lo ha richiamato alla mente.
Nota personale (ma anche tutto il resto è personale): l’ultimo racconto, “Cane da petrolio”, che da il titolo alla raccolta è me-ra-vi-glio-so.

L’AUTOBIOGRAFIA DI MISS JANE PITTMAN, ERNEST J. GAINES, MATTIOLI 1885, € 18,00
Questo è un libro che è iniziato come un romanzo molto bello, e si è rapidamente trasformato in un romanzo pazzesco. Potrei citare un sacco di parti, ma c’è talmente tanta roba che a costo di sembrare arrogante vi dico “venitelo a prendere”.
Non racconto mai i “plot”, e non vi dico di cosa parla, perché quello potete leggerlo ovunque (anche se non è detto che quello che troverete corrisponda a quello che in realtà è).
Vi dico però perché mi è piaciuto, ed è qualche cosa che con la storia forse ha poco a che vedere. Mi è piaciuto il tono, la lucidità di una testimonianza drammatica ma anche molto sincera. C’è la Storia; c’è la poesia; ci sono lo scoramento, la rabbia, l’orgoglio, il dramma e le soddisfazioni. C’è una storia che non concede niente a nessuno, né ai bianchi né ai neri. E men che meno a chi semplicemente permette che le proprie emozioni siano trascinate da frasi ad effetto, da “visioni politiche” (o dal politically correct). C’è una storia vera perché è la storia di tanti, con buoni e cattivi che a volte paiono seminati a caso dal destino.

IL LIBRO DI ROSE, RONALD EVERETT CAPPS, MATTIOLI 1885, € 16,00
Ronald Capps riesce a raccontare in 150 pagine una storia che alterna poesia e violenza. Non quella che ci stiamo abituando a leggere negli ultimi anni (niente abusi su donne o bambini, niente soprusi razziali, niente vite travolte da una società che le rigetta).
“‘Poi Dio ha messo persone speciali su ciascuno dei continenti perché potessero mettere in pratica il suo piano. Dio aveva un piano per questo mondo e per l’ uomo. Tutti i fatti accaduti nel corso della storia sono la dimostrazione di come il suo piano si sia compiuto”.
Questo tipo di violenza, in una normale lezione di scuola elementare.
Però, come dicevo, c’è altro: ci sono le risate di Rose, le chitarre e le canzoni dei suoi nuovi amici, C’è un uomo che canta Blue Moon e che. .. “racconta solo delle storie così io poi vedo le cose con occhi diversi”.
(Un bilanciamento benedetto)

RUTHIE FEAR, MAXIM LOSKUTOFF, ED. BLACK COFFEE, € 18,00
Libro strano, a tratti fiabesco. La ragione per la quale mi è piaciuto penso sarà la stessa che provocherà uno shock a qualcuno.
Denuncia la gentrificazione dell’Ovest americano, lo sfruttamento, da parte di costruttori, turisti, cacciatori per hobby, di luoghi un tempo appartenenti ai nativi.
MA… ci sono dei “ma”: i personaggi coinvolti in quanto vittime riconoscono il processo, ne vedono i danni, ma fanno ben poco per combatterlo. Sono consapevoli di dover agire, ma anche coscienti di non poter arrestare il mondo futuro. Guardano come testimoni arrabbiati ma impotenti. Non ci sono azioni coraggiose, solo un chiudersi in sé stessi e nella comunità originaria, lasciando fuori con disprezzo il nuovo. Tocca alla natura, ogni tanto, ricordare chi ancora comanda (forse per poco).
E altro punto fondamentale è la dicotomia tra il rispetto per gli esseri viventi e l’istinto della caccia.
Chi si sente più vicino agli animali che agli uomini caccia, come fanno i predatori.
Chi odia i cacciatori “della domenica” non ha la capacità né i mezzi per opporsi, e caccia con loro.
Tutti hanno tanti principi, ma poca forza per metterli in pratica.
Perché siamo in fondo così, e questi sono personaggi molto veri, con tutto il loro orgoglio e la loro dignità, ma anche. purtroppo, una forte visione del reale.

SCIMMIE, SUSAN MINOT, ED. PLAYGROUND, € 15,00
Lessi “Scimmie” in lingua originale anni fa. Avevo un’altra età. L’ho riletto in questi giorni, ad un’età molto diversa. L’ho vissuto in altro modo, ho apprezzato differenti sfumature, e l’ho amato come la prima volta. La scrittura. Non si può prescindere dalla scrittura di Minot, dalla freschezza della parola anche quando sottintende qualcosa di “fosco” e di non detto. I capitoli sono tessere di un romanzo e nello stesso tempo episodi a sé stanti, e ci si rende conto che le narrazioni sono due: quella raccontata e quella non detta fatta di sfumature, sguardi, silenzi, nervosismi, e di tutti gli stacchi tra un capito e l’altro.
Ancora ho amato la naturalezza, anche nei momenti imbarazzanti di vita in comune, degli scambi tra fratelli e sorelle (le scimmie, appunto, come li chiamava la madre). C’è una sensazione di familiarità negli scherzi, nelle parole e nei silenzi, che tutti – chi ha avuto un’infanzia e un’adolescenza serena e chi ha avuto qualche turbamento – possono sentire riaffiorare tra i propri ricordi. E probabilmente alcuni di questi ricordi riaffiorano proprio leggendo Minot.

IL DONO DI HUMBOLDT, SAUL BELLOW, MONDADORI, € 15,00
Libri che si leggono una seconda volta. Le seconde volte non riguardano mai le storie; i libri si riprendono per ritrovare una scrittura, un’atmosfera.
“Il dono di Humboldt” è una continua folgorazione di concetti e considerazioni che cadono proprio come fanno i fulmini, qui e là, tra le righe di una narrazione.
– L’eccesso di auto-descrizione e indulgenza della voce narrante fa risuonare un allarme nel lettore, ma questo stesso allarme è sia evidente che ovattato nella nostra coscienza: pensiamo, ma non siamo sicuri di trarre le conclusioni corrette e nasce il sospetto che le conclusioni corrette potrebbero non esistere.
– La sensualità dell’amante, la sua imperfetta fisicità e la sua natura calcolatrice diventano un simbolo – procedendo nella lettura -, un arcano, qualcosa di diverso dalla figura della donna.
– L’ infinita lotta tra arte e potere – all’interno della mentalità americana – è una lotta che può annichilire l’artista, oppure farlo scivolare in una specie di amplesso, punto di partenza per il lavoro su sé stesso o “attorno” a sé stesso.
– Una società che crede di avere nobili ideali e nobilissimi doveri, e che invece è chiaramente infantile e naive.
C’è quasi troppo in questo romanzo, e c’è la bellezza di lavorarci in modo diverso dal solito. Ad una scrittura che come stile porterebbe ad una lettura sciolta, quasi veloce, il lettore ad un certo punto (CONCORDO, NON SUBITO), capisce di dover opporre qualche misura per rallentare. Più si prosegue più viene voglia di fermarsi ogni tanto: non per la difficoltà, ma per il gusto di assaporare piano qualcosa che forse fatichiamo a riconoscere subito ma che la mente ci dice essere degno di una meditazione maggiore.
La lettera con la quale il defunto Humboldt spiega all’amico il dono, e il dono stesso, sono un capolavoro assoluto, da assaporare proprio come un bicchiere di vino pregiato che non si beve tutto d’un fiato.

MERIDIAN, ALICE WALKER, SUR, € 18,00
A parte Il colore viola (che tutti conoscono anche se magari il libro non lo hanno letto), di Alice Walker c’è parecchio altro.
Sapete quanto mi è piaciuto La terza vita di Grange Copeland, che infatti è esposto nella vetrina de “I libri secondo me” (per chi non lo sa una delle mie vetrine espone libri vecchi o nuovi, non mi importa, che secondo me vanno letti).
Questo è un altro romanzo in cui l’impegno di Walker è molto presente ma con grande obiettività. La storia, senza spoilerare, è quella di una ragazza afroamericana che percepisce con una intensità forse eccessiva ciò che è giusto e ciò che non lo è; eccessiva perché questo suo sentire può solo metterla in difficoltà con tutti: con i bianchi e con gli afroamericani. Perché Meridian lotta per rivendicare ciò che ai neri è dovuto, ma è anche testimone delle violenze e dei modi di pensare deviati dei neri, incluse alcune sottili forme di “razzismo interno”.
Il lettore può anche trovare una parziale motivazione in certe azioni ma, appunto, parziale. E la storia mi riporta a La terza vita di Grange Copeland, dove Walker sottolinea che nonostante gli abusi subiti un uomo deve comunque cercare uno spazio interiore in cui potersi definire Uomo.
Meridian è sì un romanzo violento, ma la scrittura lucida è la personalità dei protagonisti permette comunque di leggerlo “continuando a respirare”.
Vorrei, da ultimo, fare un esempio di come le parole, a seconda di come sono presentate, possono generare pensieri opposti:
Dalla quarta di copertina: “La domanda era: è possibile essere colpevole di un colore?”
La frase del romanzo: “Per il fatto di essere bianca Lynne era colpevole di bianchezza. In quella direzione, Truman (nero,ndr) non fu in grado di semplificare ulteriormente il ragionamento. Allora la domanda era: è possibile essere colpevoli di un colore?…”

LA TERZA VITA DI GRANGE COPELAND, ALICE WALKER, SUR, € 18,00
La storia di una famiglia di neri attraverso tre generazioni. L’abbruttimento degli uomini che porta a violenze famigliari “giustificate” dal fatto di essere considerati “cose” dai bianchi. Ma anche la denuncia, non troppo velata, che nonostante tutto il male che sicuramente è derivato dal suprematismo bianco, c’è sempre una fiammella dentro ad ognuno di noi che ci rende esseri umani. Eppure non per tutti è così. Mentre Grange, dopo aver commesso tutti i crimini possibili, si pone domande su questa fiammella, suo figlio è perduto. Un libro di denuncia dei rapporti bianchi/neri, un libro di denuncia delle violenze famigliari le cui vittime sono bambini e donne. Le donne sono estremamente importanti in questa storia. Non sono solo vittime, ma sono anche la volontà di reagire – ognuna a modo proprio – alla forza, al destino. E sono donne che utilizzano tutto quanto hanno a disposizione per farlo. Dai fucili al sesso. L’unica cosa che non riescono mai a mettere da parte è quella pietas che le distingue dagli uomini. QUESTO E’ UN LIBRO DAVVERO DA NON PERDERE)

HEARTLAND, SARA SMARSH, BLACK COFFEE ed. ,€ 18,00
“Vivevamo ogni giorno difficoltà che facevano sorgere una domanda scomoda sull’America, e che non molti erano pronti ad affrontare: se una persona poteva ogni giorno andare al lavoro ma non essere comunque in grado di pagare le bollette, e se il razzismo non c’entrava, allora c’era sotto un problema meno esplicito. Ma quale?”.
Un libro che lascia perplessi anche su quelle realtà delle quali pensiamo di sapere qualche cosa. Realtà vissute e raccontate dall’interno, con il tono estremamente lucido del dato di fatto e non della rivendicazione. Un libro che ancora una volta suggerisce come l’America di Steinbeck e di Faulkner non sia in realtà cambiata. O, peggio, abbia fatto passi avanti e poi si sia impegnata a cancellarli negli ultimi quarant’anni. E suggerisce molto altro. DA LEGGERE.

IL GIORNO DEI GIORNI, JOHN SMOLENS, MATTIOLI 1885, € 18,00
Libro che mi è piaciuto ASSAI. Il romanzo prende spunto da un episodio reale (il primo atto di terrorismo interno negli Stati Uniti. In parole povere un americano contro altri americani). Sono i ricordi di Bea, ormai molto anziana ma allora una ragazzina, a raccontarci cosa accadde. MA NON E? PER NULLA il racconto di un dramma, se così si può dire, perché la voce narrante usa il ricordo per raccontare la storia attraverso le percezioni di una quattordicenne. E le considerazioni che ne scaturiscono sono sorprendenti, almeno in un periodo come il nostro in cui ci sentiamo obbligati a dispensare giudizi e verità. E, parallelamente a questa storia, e sullo stesso piano come importanza, una PROFONDISSIMA AMICIZIA.